martedì 28 luglio 2009

Quando lo psicologo fa il giudice e il giudice lo psicologo

Post originario: commento sul blog di Raffaella Di Marzio
https://www.blogger.com/comment.g?blogID=4879438425670707462&postID=2634852493102164432

Come dicevo già altrove, quando si parla di sette (o presunte tali) spesso sembra non considerarsi la differenza tra “colpa” e “dolo”, cioè il caso che il comportamento di un gruppo settario (o presunto tale) possa avere risvolti negativi ma non intenzioni negative. Considerare questa ipotesi – oltre che essere segno di civiltà umana e giuridica - avrebbe due importanti conseguenze.
1. Riporterebbe le diverse questioni criminali e comportamentali nei rispettivi diversi ambiti di competenza (giuridico e sociologico/psicologico): ai tribunale valutare se ci sia o meno reato e – se sì – se ci sia colpa o dolo; allo psicologo/sociologo valutare le ragioni delle scelte di chi entra in una setta e le modalità di comportamento della setta stessa. Non serve uno psicologo per occuparsi di truffa e fa un cattivo servizio al cliente, al tribunale e alla propria categoria lo psicologo che si mette a fare il criminologo confondendo i due piani. Suo compito dovrebbe invece essere la comprensione dei motivi e delle dinamiche che portano un individuo a cercare la setta e che portano il gruppo a strutturarsi e ad agire come setta, magari partendo da intuizioni o intenzioni non criminali.
2. Conseguenza immediata è che ciò concentrerebbe l’attenzione psicologo/sociologo sull’aiuto delle persone e non sul giudicarle. Se c’è una setta (o anche se non c’è ma ci sono sofferenze legate al gruppo) c’è un grande bisogno di aiuto, nella forma dell’ascolto e della ricomposizione: eventuali reati vanno invece segnalati e affidati alla magistratura. Tale aiuto andrebbe esercitato certamente per i fuoriusciti, ma anche se non soprattutto per quelli che restano dentro nonché per il gruppo stesso nel suo complesso, esistendo la concreta possibilità che un gruppo si sia avvitato inconsapevolmente in dolorose o quantomeno sterili modalità settarie. Un esplicito invito al dialogo su “possibili problemi nel gruppo” e al confronto con gli ex membri rivolto al gruppo stesso da associazioni di ascolto aiuterebbe anche a chiarire da subito se siamo di fronte: a) a gruppi innoqui con ex membri esaltati; b) a gruppi con modalità potenzialmente critiche; c) a vere e proprie sette, pericolose ma non criminali; d) a gruppi criminali che sfruttano la copertura della setta.
Viceversa ciò cui si assiste è una incomprensibile distinzione "buoni - cattivi": buono è il membro di una setta (o di una presunta setta) fuoriuscito e critico, cattivo è il membro non fuoriuscito o non critico. Non c’è la possibilità che una persona cerchi nella setta la risposta a domande esistenziali autentiche, al di là del fatto che la setta (o presunta tale) possa essere il luogo adatto ove cercarle. Detto altrimenti, per chi non rinnega la setta c’è nel migliore dei casi la tolleranza che si ha per i peccatori, nella speranza che prima o poi si ravveda. Non c’è alcun riconoscimento della dignità umana del soggetto e delle sue idee. E rispetto alla setta non viene concepita la possibilità che evolva: essa deve essere semplcimente cancellata.
Laddove sussista questa modalità – e sembra sussistere spesso – non stupisce che questa si applichi anche alle stesse relazioni tra studiosi e associazioni antisette, dove il dibattito non è più su cosa e setta ma sul come si sia antisette e sul quanto lo si sia, fino a che chi non è con me è contro di me, fino a creare schieramenti ideologici tra puristi dell’antisette e apostati, dove ciascuno schieramento si sclerotizza e si difende dietro i propri studiosi e le proprie teorie di riferimento, nella completa incapacità di apprendere nuove teorie, di sperimentare sul campo, in definitiva di evolvere.Sarebbe già un bel salto se tali gruppi riuscissero a definirsi, a percepirsi e ad essere percepiti non come “associazioni antisette”, ma come “gruppi di aiuto” o meglio ancora come “gruppi di ascolto”.

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