giovedì 30 ottobre 2008

Cesap: pacificazione o radicalizzazione?

Post originario: su "Parliamo del Cesap"
http://groups.google.it/group/parliamo-del-cesap-bari/browse_frm/thread/bca62768e65a2883

Un altro aspetto rilevante della questione è comprendere quali siano le modalità attivate dal Cesap-Noci, per come sono desumibili da atti e documenti pubblici, se cioè esse siano tali da promuovere una pacificazione tra le parti, una guarigione delle ferite, o se invece tendano a radicalizzare le divisioni.
Preciso che questo non ha nulla a che vedere con la valutazione di verità e/o gravità dei fatti eventualmente contestati tra le parti. La definizione della verità giudiziaria compete infatti alla magistratura e, quand'anche si fosse in presenza di reati, non sarebbe la verità giudiziaria (un volta sancita) a pacificare “carnefici e vittime”, ma la comprensione e la rielaborazione dei fatti. Soprattutto, se si considera che in realtà collettive quasi mai tutte le persone da una parte sono vittime e tutte quelle dall’altra sono carnefici, è utile cercare e trovare un punto di dialogo e comprensione tra le persone in posizioni intermedie, che aiuti tutti a “comprendere”.
Sotto questo profilo una tentazione pericolosa è quella di praticare la tattica “terra bruciata”, consistente nel segnalare il rischio setta – prima di qualunque pronunciamento di un tribunale, ma solo sulla base delle proprie convinzioni – a datori di lavoro, vicini di casa, scuole e alberghi (per chi organizza eventi). Obiettivo dichiarato: evitare che in attesa di un eventuale pronunciamento definitivo di un tribunale altre vittime si producano.
Le persone che hanno frequentato seminari di Arkéon hanno fatto esperienza diretta di questa pratica, sia come individui che come gruppo. A questo proposito, tuttavia, desidero citare il caso di un altro gruppo che non conosco, trovato sul sito del Cesap-Noci dove trovo il seguente scambio.
(http://www.cesap.net/index.php?option=com_content&task=view&id=1240)
Una persona che contatta il Cesap-Noci dicendo di aver capito che un suo collega fa parte “della setta Armata Bianca” e chiedendo se debba “continuare a tacere o iniziare a mettere in guardia alcune persone”.
La d.ssa Tinelli risponde: “Se lo ritiene, e il continuo 'predicare' del suo collega, la infastidisce, può sicuramente informarne il vostro datore di lavoro. E, sempre se lo ritiene, può parlare delle sue perplessità e delle prove che ha, con le sue colleghe, affinché consapevoli, possano poi scegliere di continuare ad ascoltare ancora oppure no”.
Ripeto, non conosco il gruppo e non è questo il punto. Il punto è il metodo. Rispetto a ciò, posso comprendere – se si ritiene di avere a che fare con una setta - l’intenzione di allertare le persone su possibili rischi, per evitare che in attesa di un eventuale pronunciamento definitivo di un tribunale altre vittime si producano: ciò può essere fatto con l’informazione e, in questo senso, posso comprendere l’invito a parlare ai colleghi dando una visione diversa, con cui essi possano confrontarsi per decidere più informati Ciò che trovo incomprensibile e inquietante è l'invito a parlare al datore di lavoro. Cosa dovrebbe fare? Licenziarlo? Riprenderlo? Fare mobbing? E’ questo il modo in cui la psicologia suggerisce di affrontare un possibile conflitto interpersonale nell’ambito lavorativo? E il paradosso è che non viene suggerito come extrema ratio, ma come primo passo: prima dillo al capo, poi se non basta dillo ai colleghi.
Non so come spiegare un simile atteggiamento: incompetenza, che porta a sottovalutare o non vedere affatto i rischi di un simile atteggiamento? Spregiudicatezza, che porta a trovare accettabili tali rischi perché il fine giustifica il mezzo? Arroganza, che porta ad agire prima di confrontarmi con altri perché sono certo di non sbagliarmi?

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